24 novembre 2008

C'è una macchina che vola.



C’è una macchina che vola.
Lucida e nera fende l’aria della notte.
L’asfalto scivola via veloce mentre i cerchi cromati brillano nel buio.
Una macchina nera, che vola.
Dentro c’è un uomo.
Il motore ruggisce, le ruote mordono, i cerchi brillano, la macchina vola.
L’uomo invece piange.


– Siete in due?
– Si.
– Preferite un tavolo dentro oppure fuori?
– Meglio fuori, almeno si può fumare.
– Ci sono questi due tavoli oppure…
– Possiamo sederci laggiù, nell’angolino?
– Si, va bene…

Un ombrellone bianco.
Il rumore del mare.
Noi seduti lì in disparte.
L’odore del mare.
Appartati tra mille altri volti.
Solo noi e il mare.

Un locale caratteristico, odore di pini marittimi e di salsedine. Una terrazza sulla spiaggia spruzzata di luna. La musica delle onde che vibra lenta. Tra le nuvole s’intravede un cielo di zaffiro trapunto di stelle. La tua mano è nella mia. Non manca niente.

– Che prendi?
– La pizza no!
– Io calamari fritti.
– Cos’è la frittura di paranza?
– Pesciolini…
– Allora calamari anch’io!
– Antipasto?
– Si, e da bere voglio vino bianco, frizzante.

Il sorriso t’illumina gli occhi. Verdi d’acque tropicali e grigi di ghiacciai eterni. C’è tutto il mondo in quegli occhi. Il pesce è buonissimo. Tu sei stupenda. E’ tutto perfetto, tranne il tempo che non posso fermare. Meglio pensarci domani. Adesso, non manca niente.


Le scale salite in fretta, i denti da lavare, l’ansia di abbracciarsi, baciarsi, amarsi.
E poi ridere insieme di ogni cosa.
Di tutte le cose, ridere. Insieme.
Non sapevo che il paradiso fosse qui.
Con te imparo qualcosa ogni giorno.

– Buonanotte amore…


Silenzio e buio.
Il mio respiro.
Il tuo respiro.
Solo noi.
Nel buio.
I nostri sogni.
E noi.


C’è una macchina che vola.
Come un astronave in viaggio verso l’ignoto.
Sul ponte di comando un uomo.
Cieco di lacrime e follia divora lo spazio.
Rincorrendo disperato il tempo.
Un uomo e la sua macchina.
Una macchina che vola.

Nelle orecchie un cristallo in frantumi.
Nelle mani il fuoco eterno.
Negli occhi solo rosso.
Nel cuore il vuoto.

Paura e dolore.
Non voglio ricordare.
Non voglio ricordare!

Una stanza piccola, poche cose e poca luce.
Quadri sbiaditi e mensole irraggiungibili.
Una finestra sempre chiusa affacciata sul solo mondo possibile.
Un armadio grande, poca aria, caramelle al miele, tante formiche.
E medicine. Scatole di medicine. Buste di medicine. Odore di medicine.
Un letto stanco quasi quanto l’anima.
Ed una sedia con le ruote.


Il sole trapela pigro attraverso le fessure della tapparella e disegna stravaganti arazzi di luce e polvere. Sono sveglio ma poltrisco ancora. La brezza marina mi accarezza. Un profumo di resina e sale si mescola con la tua pelle di rosa, cannella e morbido tabacco. Ti respiro ancora un attimo poi mi alzo. In silenzio, per non disturbare i tuoi sogni.
Una doccia veloce ed un caffé, che non mi viene mai buono come vorrei. Come smeraldi i pini marittimi brillano nella finestra. Una tortora si posa sul davanzale e mi guarda di traverso. Il sole si alza velocemente nel cielo. Devo sbrigarmi prima che diventi troppo caldo.
Tu dormi ancora. Io devo andare. Non posso lasciarti così! Ti scrivo due righe, per non farti preoccupare.


Tesoro,
perdona la mia silenziosa “fuga” mattutina
non volevo interrompere i tuoi sogni
che poi sono anche i miei…
purtroppo,
non posso far aspettare troppo mamma
lo sai com’è fatta, mi aspetta
e si preoccupa…
che uomo fortunato sono
conteso dalle donne…
Sei bellissima quando dormi!
A dopo.



Chiudo la porta piano per non far rumore e scendo le scale volando. La macchina mi aspetta parcheggiata in pieno sole, nera e splendente. Infuocata! Accendo motore e climatizzatore e aspetto.
Odio perdere tempo. Ma odio il caldo, forse ancor di più.

Pronti? Via!
E la strada si srotola docile e mansueta sotto il mio sguardo perso nella rotonda monotonia del paesaggio: una casa, un pino, una casa un pino, una casa un pino…
Tanto verde e poca fantasia. Sono incontentabile, me ne rendo conto.
Non c’è molto traffico, anzi: la strada è decisamente libera.
Un attraversamento pedonale, due dossi e poi, finalmente, posso accelerare.

Sotto la spinta decisa di duecento cavalli il motore
(ruggisce)
romba sornione mentre le ruote
(mordono)
aderiscono perfettamente all’asfalto.
Solo pochi minuti e la macchina
(vola)
mi porta a destinazione.

Ho la netta sensazione che la mia testa stia pensando cose che io non penso. Almeno non coscientemente. Non mi preoccupo, non più di tanto.
Sono abituato a sentire delle voci nella testa. Mi succede spesso.
Fin da quando ero bambino…



devi sforzarti non è difficile
non lo so dire
ripeti con me: macchina fotografica
macchinafofofafica
no, non così
non ci riesco
perché?
è troppo lunga, sono piccolo
non è una parola sola, sono due
due?
si, due e divise
divise…
si, forza ripeti con me: macchina fotografica
macchina fo-to-gra-fi-ca
ancora!
macchina fotografica



Ho parcheggiato e sto guardando il mio sorriso ebete riflesso nello specchietto retrovisore. Chissà perchè sto ripensando a quella voce di donna. Avevo poco più di due anni e parlavo molto bene per la mia età. Ero precoce ed intelligente. Ma non sapevo dire “macchina fotografica”. Credevo fosse una parola unica troppo lunga per me, e mi bloccavo farfugliando.
Beh, almeno fino a quel giorno. Poi la voce m’insegnò.
E quella voce esisteva solo nella mia testa, nessun altro la sentiva.
Provai a raccontarlo. Fui affettuosamente dissuaso.
Fantasie, sono solo fantasie.
Solo che nella mia testa realtà e fantasia non sono così diverse. Oggi come allora.
Non so se quella fu la prima volta che sentii la voce.
So per certo che è la prima di cui mi ricordo.

I miei occhi mi guardano spazientiti dallo specchietto. Scuri e profondi come la notte, sempre caldi ed accoglienti. Eppure oggi hanno qualcosa di sinistro. Sarà perché mi rimproverano di aver perso fin troppo tempo dietro alle mie
(fantasie, sono solo fantasie)
strane visioni mentre mamma
(lo sai com’è fatta)
mi aspetta dietro quel cancello di ferro.

Un cancello di ferro alto, invalicabile.
Tanti pini in fila indiana dietro il muro di cemento.
Finestre chiuse celano sguardi persi nel nulla.
Bianchi fantasmi vegliano lenti su morti discrete.
Biscotti, succo di frutta, medicine, terapia, follia.
Lacrime nascoste male, rimpianti, dolore.
Solitudine e dolore. Medicine e dolore. Follia e dolore.
E tanta voglia di morire.


La villa è bassa, larga e bianchissima. Il muro perimetrale contiene a stento il verde dei pini e dell’edera. Attraverso le sbarre del cancello si vede un vialetto circondato da siepi d’oleandro e d’alloro che conduce ad uno scarno patio. Il tronco di una robinia si erge improvviso come colossale guardiano della porta d’ingresso.
Tutto questo verde, assoluto e rotondo, ha un sentore di oscenità che svilisce e dissolve ogni altro colore. Mura bianche,ombre nere, foglie verdi. Cerco il giallo, il rosso, l’ocra. Niente: anche la luce è senza calore, senza colore.
Il citofono metallico è una ferita aperta sulla colonna di cemento.
Una piastrella ornamentale, parzialmente celata dall’edera rampicante, lascia intravedere una scritta: Villa Rosa.
Bianca, nera e verde. Senza fiori. Rosa…
Ogni volta mi chiedo se non possa essere il nome della donna per cui è stata costruita.
Credo non lo saprò mai.



I can't remember anything
can't tell if this is true or dream
deep down inside I feel to scream
this terrible silence stops me

(Non riesco a ricordare nulla)
(non posso dire se è realtà o sogno)
(dal profondo mi vien voglia di gridare)
(questo terribile silenzio mi ferma)


Accidenti al telefonino. Ed alla suoneria dei Metallica…
Quando sei soprappensiero son troppo potenti, me lo dicono tutti.
Ma io faccio orecchie da mercante e i Metallica li metto al massimo del volume.
Così non perdo nessuna chiamata.
Fermo in piedi davanti al cancello guardo lo schermo: sei tu.

– Ciao tesoro, ti sei svegliata?
– Alzata si, svegliata… insomma.
– Dormigliona!
– Colpa tua.
– Mia?
– Certo! Se tu la notte mi facessi dormire…
– Allora forse è colpa mia davvero…
– Certo, ricordati che io ho sempre ragione.
– Sempre sempre?
– Sempre! Sei arrivato?
– Si, ho parcheggiato adesso.
– Mi raccomando, dalle un bacio da parte mia.
– Sarà fatto.
– Mi sarebbe piaciuto venirla a trovare…
– Dormivi troppo bene.
– Mi dispiace…
– Dai, si faceva tardi.
– Dalle un bacio.
– Va tutto bene.
– A dopo.
– Ciao.

La tua voce è come una carezza agrodolce, non vorrei sentirti triste ma capisco. Capisco bene. Spero che tu capisca me. Ho scelto di essere solo, anche se soltanto per questo dolore. Sei una donna meravigliosa, mi perdonerai per i fantasmi che affronto da solista. Sono miei, devo vincerli io. O la mia anima non avrà pace.

Suono il citofono e aspetto.
Un ronzio, poi uno scrocco ed il cancello è aperto.
Un respiro profondo e ci sono, sono dentro.
Pochi passi assenti lungo il viale. Col verde che mi guarda. Col verde che mi fa male.
Pochi passi, la porta che apre al contrario, il bancone dell’accettazione.


Buongiorno, buongiorno.
È in camera? È in camera.
Buongiorno, buongiorno.


Pochi passi, il corridoio angusto, i quadri sfocati, le foto
(dei morti)
degli ospiti della villa durante le piccole
(parodie)
festicciole in occasione di qualche ricorrenza felice, di qualche
(funerale)
compleanno o del carnevale, del natale…

Ancora pochi passi nella penombra, un corridoio, mille porte, odore di disinfettante, odore di
(morte, dolore, follia, morte, morte, morte)
medicine, varechina, umidità, deodorante…
Finalmente ci sono, questa è
(la tomba)
la porta numero 21, quella di mamma…


Vengono a prendermi…
invisibili, nel buio che mi circonda
li sento svolazzare
li sento ghignare
ali ricurve che vibrano
artigli taglienti che lacerano
vengono a prendermi
ho paura
mi graffiano, mi tagliano, mi mangiano
feroci e spietati mi prendono
un pezzo all volta…
sento solo dolore e paura
dolore e paura
ti prego Dio aiutami
(a morire)
a guarire
ti prego Dio aiutami
(a morire)
a guarire
ti prego
(figlio mio)
Dio aiutami
(a morire)



Le porte di mogano scuro sembrano guardarmi torve da ogni lato del corridoio. Controllo che il numero della stanza sia quello giusto. Come spazientiti i bronzei numeri scintillano tenui proprio davanti ai miei occhi. Busso alla porta e, senza aspettare nessuna risposta, afferro la maniglia ed entro.
La stanza è piccola e buia, come sempre. La tapparella completamente calata anche in pieno giorno. Poche lame di luce trapelano a stento dalle fessure. Sembra quasi notte. Anche se per i tuoi occhi malati il giorno e la notte non devono avere un gran significato. La finestra chiusa da cui non entra né l’inverno né l’estate. Odore di chiuso, di borotalco e di medicine. Anche la luce è spenta.
I miei occhi s’abituano alla semioscurità. Mi guardo intorno.
Un armadio alto con tre ante e sei cassetti scricchiola sotto il peso degli oggetti stipati sia al suo interno che negli scatoloni enormi che lo sovrastano. I quadri appesi al muro, azzurrognoli e sbiaditi, si confondono pigri nel grigiore delle pareti. Sulle mensole irraggiungibili una scatola di biscotti si contende lo spazio con un fornelletto antizanzare. La scrivania sorregge in grande televisore spento. Chissà quante volte il tuo sguardo ormai buio, ti ha costretto ad usarlo come una radio a colori. Sentire la televisione senza poterla vedere dev’essere un bel fastidio. Con te la vita è dura anche nelle piccole cose.
Un rumore ansimante viene dal compressore che mantiene la giusta pressione del materasso ad aria. Ci passi molto tempo in quel letto. Meglio evitare altri problemi.
Ed infine eccoti, come un ombra al centro della stanza, smagrita e consunta, con lo sguardo spento perso nel vuoto, seduta sulla tua inseparabile sedia a ruote.
Con in gola solo un filo di voce sussurro appena «ciao mamma»¬ e già mi viene voglia di morire.
Tu rimani lì seduta nel buio, immobile. Ed io vorrei tornare bambino e piangere tutte le lacrime del mondo consolandomi sul tuo seno. Vorrei poter essere ancora fragile, come una volta. Vorrei che tu potessi ancora esser forte, come una volta.

La notte è tanto buia.
Casa è piccola ma ordinata, molto ordinata.
Un corridoio lungo senza finestre ed un’immensa colonna portante.
In caso di terremoto mi metto lì sotto, e aspetto…
In fondo all’ingresso la mia stanza.
(Troppo piena)
Vuota.
Sempre vuota, soprattutto nella notte buia.
Troppe ombre e troppe luci.
Troppi silenzi e troppe voci.
Troppi fantasmi in quelle piccole quattro mura.
Io dormo al salone. Dormo…
E sento le voci nella camera.
Discutono, si agitano, mi chiamano.
Ed io, gli occhi aperti nel buio, sdraiato nel lettino del divano, tremo.
Lasciatemi dormire!
E le voci cantano, urlano, mi chiamano.
Ormai sono completamente
(terrorizzato)
sveglio nel mio lettino.
Mi alzo da solo nel nero pesto della notte col cuore in gola.
Occhi chiusi e mani sulle orecchie esco dal salone.
No, non mi giro mai verso la mia camerina.
Corro nella tua, dove tu dormi nel lettone con papà.
E sgattaiolo piano tra i vostri corpi sdraiati per farmi proteggere.
Lo so che non vuoi, non sono più un lattante…
Però mi fai posto lo stesso.
Ed io, finalmente, abbracciato a te dormo.


Ricordo che insieme a papà scacciavate i fantasmi. Sono anni che lui non c’è più. Nella penombra fatico a distinguere la sua foto, eppure son sicuro che sia proprio lì: sulla scrivania.
Adesso è un fantasma anche lui. Forse non te l’ho mai detto. Sento spesso la sua voce. Qualche volta l’ho anche visto...


un cimitero
una lapide
un epitaffio

«CI CONSOLA IL PENSIERO
CHE UN GIORNO
CI RINCONTREREMO»

quel giorno
fu il giorno stesso
della tua morte



In fondo è stata una fortuna, per uno come me che non ama aspettare.
A volte mi chiedo se “dopo” vedrò anche te, se sentirò la tua voce…
Dopo…

Ora sei qui, seduta nel buio.

– Ciao mamma.

Nessuna risposta. Il silenzio sembra quasi tangibile nell’oscurità. Mi avvicino e ti guardo. I miei occhi si velano di lacrime e pudore. Tu sei lì, immobile. Uno scricciolo ricurvo sulla tua sedia a ruote. Tu. I capelli, bianchissimi e scomposti, sempre più radi. Gli occhi spenti fissi nel vuoto. Il volto pieno di ematomi, figli indesiderati dell’ultima, ennesima, operazione. Il corpo scavato fino all’osso dalla malattia e dal dolore. Le braccia gonfie e livide costellate di cerotti e di aghi per le flebo. Le gambe inermi, fragili ramoscelli scolpiti nel cristallo.
Mi avvicino ancora e sento il tuo respiro leggero, incerto. Sento, credo di sentire, il battito zoppo del cuore. Sento i tuoi pensieri vacillare. Sento i miei soffocare. Mi avvicino ancora.

– Ciao mamma.

Nessuna risposta. Giri la testa verso di me. O forse verso la mia voce. E mi guardi senza vedermi. Con le mani ossute stringi in grembo una borsetta nera. So che la tieni sempre con te. Per non perdere le cose. Nel buio assoluto è difficile cercare gli oggetti senza sapere dove sono.
Mi avvicino ancora. Giro intorno alla sedia a ruote. Mi piego per sfiorare le tue spalle con le mani. Per un attimo il tuo profumo di borotalco copre il sentore di chiuso e di farmaci. E mi sembra di ritrovati. Ti bacio piano.

– Ciao mamma.
– …
– Ciao mamma.
– Ciao… chi sei?


Chi sei?
Chi sono?
Chi sei?
io sono
(la porta)
tuo figlio

Chi sei?
Chi sono?
Chi sei?
Io sono
(la morte)
tuo figlio



– Sono io, mamma.
– …
– Sono io…
– Non ti vedo!
– Lo so, mamma.
– Scusa, ero assorta…
– Come stai?
– …


Come sto?
non riesco a dormire
li sento volare
nel buio
ho paura
ho dolore
li sento urlare
mi prendono
un pezzo alla volta
ed io sempre qui
inerme
paura e dolore
senza più dignità
senza più onore
Come sto?



«Sto sempre seduta», dici con un sussurro. E chissà come riesci a sorridermi.

Mi siedo sul bordo del letto. Ti aiuto a sistemare un po’ di cose. Parliamo del passato, che il presente ci fa troppo male. Il passato invece è rassicurante. Soprattutto per chi non ha più tanto tempo da spendere. Ti faccio tutte quelle domande stupide che proprio non mi posso risparmiare, così scopro se hai mangiato, se hai dormito, se hai preso le medicine…


Sono stanca!
Non ho più voglia di mangiare.
Non riesco più a dormire.
Sono stanca di medicine.
Sono stanca…



E tu un po’ mi rassicuri e un po’ mi lasci capire quanto è pesante resistere. La tua voce è un sussurro flebile che frequentemente si gonfia di lacrime. Succede spesso anche a me. Come adesso.

– Stanotte ho avuto da fare…
– Hai avuto da fare?
– Si, c’era tuo padre.
– …
¬– Non sta tanto bene. È preoccupato!
– È preoccupato per te?
– Si.
– Ma forse l’hai sognato?
– Forse l’ho sognato. Non lo so! Era qui. Era preoccupato, stava male. Poi sono andata in bagno e sono tornata a letto. E lui era ancora qui. Mi parlava. Mi aspettava…
– Ti ricordi cosa ti ha detto?
– …





«CI CONSOLA IL PENSIERO
CHE UN GIORNO
CI RINCONTREREMO»

ci rincontreremo
quel giorno è vicino
quel giorno è arrivato
ci rincontreremo
ti aspetto…



No, non te lo ricordi. O forse non me lo vuoi dire. O magari son rimaste solo le lacrime amare che adesso piangiamo insieme.


– E poi cosa hai fatto?
– Ho pregato… ho pregato che Dio mi facesse morire!
– Non dire così…
– Sono stanca… prego tutti giorni, tutte le notti, prego di morire… ma Lui non mi ascolta… sono stanca…

Desiderare la morte e scoprire che lei ti guarda. E si compiace a tal punto da prendersela comoda e godersela. La morte che non si accontenta di vincere. E che adora sentirsi desiderata. La morte che vuole decidere.

– Lo so, mamma.
– Ho paura… aiutami!
– Come ti aiuto?
– …

Tu sei
(la morte)
mio figlio

aiutami a
(morire)
guarire

tu sei
(la porta)
mio figlio

aiutami a
(guarire)
morire

tu sei
(mio figlio)
la morte



– Aiutami…

Io piango. Tu piangi.
E la morte ci guarda.
La stanza è sempre più buia.
Ora è freddo.
Le mie mani, la tua voce.
Le tue lacrime, la mia pelle.
Paura e dolore.
Niente dignità, nessun onore.
Solo amore.
Paura e dolore.
Pietà e amore.
È tanto buio, tanto freddo…
Un cristallo s’infrange.
Le mie mani bruciano.
Lava fusa, rossa, brilla nel nero.
Fuoco nelle mani.
Vuoto dentro al cuore.
Lava che brucia, che brilla.
Rossa nel nero.
Che adesso è tutto rosso…


C’è una macchina che vola.
Lucida e nera scivola sull’asfalto rovente.
Il sedile ghiacciato e le ruote fumanti.
Una macchina nera, che vola.
Dentro c’è un uomo.
Le mani rosse. La macchina nera. Il cuore vuoto. La macchina vola.
L’uomo invece piange.

I pini verdi e le ombre nere mi accompagnano correndo veloci attraverso i finestrini. Sto tornando a casa. Non desidero altro. Forse.


non desidero altro
che il vuoto
cancelli l’amore
cancelli la morte
cancelli il dolore
cancelli il ricordo

non desidero altro
che il vuoto
cancelli il rimorso
che il vuoto
cancelli le mie mani insanguinate
rosse d’amore
nere di morte

non desidero altro
che il vuoto
cancelli
me



– Finalmente sei tornato, ero preoccupata. Mamma come sta?
– …
– Non bene vero? Ti si legge in faccia, sei sconvolto!
– Lei dice che sta sempre seduta…
– È una donna coraggiosa!
– Si, forse solo un po’ stanca… stanca di vivere così.
– Lei vive solo per voi, per te. Lo sai!
– Io so che bisognerebbe aiutarla ad andare…
– Non si può mica spegnere l’amore!
– No, ma l’amore fa cose strane…
– …
– Non ci sarà molto da aspettare…
– Non dire così.
– Sarà una liberazione, spero…
– Lo spero anch’io
– Dai andiamo, che il treno non aspetta.
– Tanto siamo abbonati a perdere i treni…
– Qualche volta no… qualche volta prendiamo quello giusto…



I can't remember anything
can't tell if this is true or dream
deep down inside I feel to scream
this terrible silence stops me

(Non riesco a ricordare nulla)
(non posso dire se è realtà o sogno)
(dal profondo mi vien voglia di gridare)
(questo terribile silenzio mi ferma)




Il treno ha appena lasciato la stazione portandoti via e già il telefono squilla. Guardo il display sperando sia tu, la facciamo spesso questa strana telefonata-saluto quando ci lasciamo per un po’, invece leggo: Villa Rosa.


cancellami
cancellami
cancellami!



– Pronto?
– Pronto, sono Angela di Villa Rosa.
– Si?
– Ho una brutta notizia.
– …
– Purtroppo sua madre, poco dopo che lei è andato via, siamo andate per darle la cena e… non so, forse una crisi respiratoria…
– È morta?
– Si, purtroppo si. Mi dispiace.
– Era tanto stanca…
– Si.

Quando da tempo sei in lista d’attesa con la morte, nessuno si stupisce che esca il tuo numero. Nessuno indaga. Nessuno fa domande scomode. Nessuno vede i lividi sul collo. Confusi tra i cento lividi che la tua pelle consunta ormai quotidianamente esibiva.


nella morte
sei nessuno
nel vuoto
che ti cancella

mentre dolore e rimpianto
sono solo un piccolo prezzo da pagare
per la tua libertà

la tua anima è così bella…




Ora sei qui davanti a me.
Sdraiata nella tua bara di larice netto con le maniglie dorate.
Il tuo viso sembra sereno.
Indossi il golf giallo e viola, quello con i bottoni che ti piaceva tanto.
Al collo porti la sciarpa di cashmire gialla che ti regalai.
Non ti separavi mai da quella sciarpa.
Quasi potesse riscaldarti il cuore nelle lunghe notti di solitudine.
Sei perfino elegante, come se lo schifo della vita non ti avesse toccata nemmeno un po’.
Ho messo al tuo fianco la foto di papà, quella che tenevi sul tavolo.
Quella che non eri più capace di vedere.
Ho messo anche una moneta, magari è solo superstizione, ma non si sa mai…
La morte in fondo non è mica una cosa seria.
Ho messo dentro anche il mio cuore bambino, so che non ne avrò mai più bisogno.
Non senza di te…




una lastra di zinco
le viti sul coperchio
non credevo sarebbe stato così…

non credevo saresti stata così…
lontana




È ora di andare.
Si rischia di far tardi al funerale.
E credo che la stupidità del nostro vivere sia tutta qui…
Nella fretta di correre verso la fine…
L’unica fine possibile.

Ti bacio la fronte e ti guardo per l’ultima volta.
Almeno in questo mondo…
E mi trovo a chiedermi, così stupidamente, come mai tu sia scalza…


“perchè c’è il prato”


È la tua voce quella che ho sentito!
Ne sono sicuro.
Vorrei chiederti mille cose ma so che non è il momento.
Mi accontento di sentirti di nuovo.
Vicina.

In chiesa siamo in pochi.
Non ci sono molte persone che si ricordano di te.
Almeno tra i vivi…

Di fantasmi ce ne sono fin troppi, affacciati a quella cupola di vetro.
Per un attimo mi sembra persino di vederti.
Ma è solo un attimo.
Prima dell’ultimo saluto.
Una preghiera.
E poi viene notte.


sono sdraiata
le mie gambe sono magre
sento il calore del sole
e il solletico dell’erba sulle braccia
c’è una brezza leggera
e profumo di margherite
muovo le gambe
sento il fruscio dell’erba
e nessun dolore
vedo la luce
tra le palpebre socchiuse
e tremo all’idea di aprirle
e rivedere il cielo
lo faccio
ed è tutto dipinto
d’ azzurro ed arancione
nel tramonto più dolce
dai miei occhi
scende una lacrima salata
di gioia vera
(ti aspettavo)
non sono sola
(alzati)
provo ad alzarmi
e le mie gambe mi sorreggono
(ti aspettavo)
non sono sola
non sarò mai più
sola…



Nella notte buia, sono sveglio e ti sento.
E ti vedo.
E vedo attraverso i tuoi occhi.
Stai camminando in un prato inondato di sole.
Davanti a te un uomo coi baffi ti sorride.
Un sorriso candido come i suoi vestiti e la vespa su cui è seduto.
Nel suo volto mi sembra di specchiarmi.


non ricordo
di averti mai visto
così giovane
papà



Poi il buio, il silenzio.
Non sento più niente, non vedo più niente.
Rimorso e assenza si fondono in una strana dolce malinconia.
E nella consapevolezza di saperti libera.
Di sapervi liberi.

Dovunque voi siate: mi mancate tanto.

Mi consola il pensiero che un giorno ci rincontreremo.
Magari presto.

spero presto

Ma non oggi
non ancora…